"Propr. J. Tatischeff, regista francese. Nato in una famiglia russa emigrata, «francesizza» il suo vero nome per dedicarsi al teatro leggero, dopo aver praticato il rugby ad alto livello. Non ha successo nei music-hall parigini, e nemmeno nell'interpretazione di cortometraggi comici da lui stesso scritti, quali Oscar champion de tennis (1932), On demande un brute (Cercasi bruto, 1934), Soigne ton gauche (Curati il sinistro, 1935), tutti diretti da R. Clément; oppure L'école des facteurs (La scuola dei postini, 1937), diretto da lui stesso. Ottiene in seguito ruoli non di primo piano in Solo una notte (1945) e Il diavolo in corpo (1946) entrambi di C. Autant-Lara, e intanto elabora l'idea di un lungometraggio, che riesce a realizzare a fatica nel 1948, Giorno di festa. Il film si fonda sulla figura, qui appena disegnata, di quello che sarà in seguito il personaggio di Monsieur Hulot. T. comincia dalla provincia francese (e finirà nelle spire della metropoli), da quelli che appaiono come una serie di appunti familiari e di costume a metà strada tra l'eredità contadina e la incipiente modernità, incarnata dal postino del paesetto, ossessionato dal modello americano di distribuzione della posta. È lui, il postino (interpretato dal regista, come tutti i suoi film successivi) che diventa il perno di una comicità già stralunata, di gag dal sapore eccentrico, dove si comincia a intravedere un filo rosso che si diparte dal lontano burlesque americano, dalla comicità pietrificata di B. Keaton, o da quella comico-surreale dei fratelli Marx. Presentato alla Mostra di Venezia del 1949, il film ottiene il premio per la miglior sceneggiatura, e tuttavia non trova distribuzione in quanto considerato un'opera «sperimentale». Viene immesso nel circuito commerciale solo dopo i consensi ottenuti durante una proiezione quasi clandestina in una sala della periferia di Parigi. Nondimeno, T. riesce a relizzare il film successivo, Le vacanze di Monsieur Hulot, solo nel 1953, girandolo nel corso di due estati su una spiaggia bretone. Il film ha un enorme successo. Sbeffeggiando le ritualità vacanziere della piccola borghesia francese, T. mette in orbita il personaggio di Hulot, tanto clamorosamente comico quanto tenacemente silenzioso: uno stralunato ed estraneo universo che frantuma tutte le liturgie codificate di una società auto-affogante nel ridicolo. C'è già, in nuce, quella che nei futuri film diventerà una esplicita negazione dell'alienazione meccanizzata, quel rifiuto che apparirà una sorta di nostalgia della conservazione, e che invece rappresenta un antagonismo solitario e un po' anarchico verso il «cattivo» presente. Una visione del mondo che quasi si squaderna nel film che segue, Mio zio (1958), che appare, appunto, un film «anarchico»: non l'anarchia di un movimento politico o di una ideologia, ma quella di un occhio penetrante, che scardina facilmente i veli mistificanti della falsa razionalità tardo-capitalistica. Esplodono al primo impatto con la stralunata figura di Hulot tutti quei folli congengni elettromeccanici degli interni medio-borghesi, che sembrano possedere vita propria e che dominano i loro possessori. Acquista spessore il mutismo del personaggio, il suo spaesamento, la sua inadeguatezza, il suo rifiuto di essere parte, di essere «dentro» la schizofrenica struttura dell'automa. T. appare perfettamente consapevole della valenza del suo personaggio, e infatti definisce Mio zio come «la prima critica della società francese del dopoguerra». Passano quasi dieci anni prima che riesca a realizzare Play Time (1967), investendo soldi propri (che perderà quasi completamente per l'insuccesso del film, arrivando a dover ipotecare la casa). Play Time, o del sincronismo del disordine – si potrebbe affermare – oppure del caos pianificato. T. costruisce una Parigi astratta e gelidamente straniante, dove il caos è minuziosamente e «razionalmente» costruito. Persone, cose, rumori, macchine, suoni, gesti, parole, tutto si muove in un «ordinato disordine», una specie di ossimoro al limite di una rottura che non viene mai. È questo che scioglie la risata, in Play Time: la comica follia dell'automa quotidiano che intrappola gli assurdi feticci metallici di un tessuto urbano ormai disumanizzante. All'uscita del film, un critico scrive: «Mettete insieme dieci Hulot, e andrà in crisi qualsiasi moderna metropoli». E infatti Hulot, questo signore dalle belle maniere e dall'aria impacciata, appare in realtà un essere «altro», un anticorpo, un alieno, un micro-universo sovversivo, capace di frantumare dall'interno la macchina della modernità con la poetica del silenzio e con la logica del rifiuto. Un non-riconciliato ante-litteram, che assiste con incredibile indifferenza all'inceppamento dei meccanismi, allo scoppio delle giunture, allo scardinamento dei supporti di un mondo estraneo al proprio essere individuo, per nulla sorpreso che tutto ciò avvenga nel suo cinema. Play Time rovescia sul suo autore uno dei più incredibili qui pro quo della critica cinematografica: preso per un bizzarro conservatore, per un maldestro gentiluomo un po' surreale, T. si presenta invece come un non-integrato, un demolitore (forse inconsapevole) delle ideologie neo-capitalistiche. Nel film successivo, Monsieur Hulot nel caos del traffico (1971), accentua, se possibile, il suo feroce contenzioso con il «mostro» meccanico, bersagliandone il simbolo cruciale, l'automobile, l'oggetto più invasivo e dilagante. Non riesce, però, malgrado certe bordate comiche irresistibili, a riprodurre la potenza demistificante di Play Time. Il film rimanda un che di scontato, e si inceppa spesso in una giaculatoria ripetitiva. L'ultima sua opera, Il circo di Tati (1974), è un film televisivo, che gli offre l'occasione per riprendere alcune delle sue pantomime, sperimentate a partire dagli anni '30: il tennista, il boxeur, il pescatore eccetera. (el)"